Recovery Sud

Negli ultimi dieci anni i Comuni sono stati schiacciati da politiche di austerità finanziaria e hanno visto ridurre fortemente i trasferimenti dallo Stato centrale (di circa il 40%). Come se non bastasse, il meccanismo di erogazione dei mutui agli Enti locali da parte di Cassa Depositi e Presiti (CDP) ha fatto schizzare alle stelle, a causa degli elevatissimi tassi di interesse, il costo del debito locale. Quest’ultimo rappresenta circa il 10% della spesa totale in numerosi bilanci comunali. Per queste ragioni i Comuni hanno dovuto tagliare fortemente le spese per il personale (in media del 40%); spesso hanno dovuto privatizzare i servizi e alienare il patrimonio immobiliare pubblico. Così facendo, hanno ridotto la quota complessiva del debito degli Enti locali da 48,6 miliardi di euro a 37,6 miliardi di euro. Risulta chiaro che i Comuni hanno svolto i loro “compiti a casa” e che i cittadini si sono fatti carico della maggior parte delle entrate dei Comuni, con un aumento dei prelievi fiscali fino al 60%. Eppure tutto questo non ha portato nessun beneficio in termini di servizi e tutele sociali, né era necessario, dal momento che gli Enti locali incidono soltanto per l’1,8% sul debito pubblico nazionale. Se si considera che i Comuni del Mezzogiorno già scontavano una condizione storica di profondo squilibrio sociale (si veda la grafica proposta in basso che riporta l’indice di vulnerabilità sociale e materiale – ISVM* – dell’ISTAT), si può capire come mai le città d’Italia che soffrono maggiormente questo “nuovo” sistema economico, ormai diventato legge unica di azione politica, si concentrano al Sud.

In questo contesto socio-politico-economico, le croniche e apparentemente irrisolvibili difficoltà di riscossione degli Enti Locali hanno aggravato ulteriormente la situazione e sono diventate determinanti per il fallimento dell’Ente stesso, in quanto le tasse e i tributi dei cittadini rappresentano l’unica vera fonte di sostentamento economico.

E allora è lecito e doveroso chiedersi: con quali risorse economiche possiamo pensare e costruire il futuro prossimo del Meridione?

Certamente non possiamo pensare che l’unico modo di far cassa per investimenti e spesa corrente possa essere la svendita dell’intero patrimonio comunale oppure la privatizzazione di tutti i servizi. È possibile mettere in campo politiche pubbliche in questi due ambiti, ma è necessario capire quale sarà lo scenario futuro nell’ambito delle risorse disponibili per il Mezzogiorno.

Dall’audizione dello SVIMEZ al Senato dello scorso 22 febbraio emergono due scenari teorizzati dall’associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno: in quello “base”, si ipotizza di investire il 24% delle risorse del Recovery Plan al Sud, puntando in sei anni ad un incremento cumulato del PIL del Mezzogiorno pari all’ 8,1%; nello scenario “rafforzato” si ipotizza che investire fino al 50% dei fondi del Recovery Plan al Sud, porterebbe ad una crescita del PIL locale fino all’11,6%. Il dato relativo all’incremento nazionale, invece, sarebbe una crescita del PIL del 7,3% nel primo scenario e dell’8,2% nel secondo. Insomma, con il Recovery Plan il Sud dovrebbe essere il motore del nuovo Paese e quindi la città di Napoli potrebbe trarne il giusto beneficio in termini di investimenti e trasformazioni socio-economiche. Tutto questo dovrebbe essere realizzato attraverso l’attivazione di grandi investimenti nei settori idrico, della mobilità, della rinascita urbana, dell’export. In particolare, si ritiene che dare l’avvio a grandi investimenti in infrastrutture possa creare 4,2 milioni di nuovi posti di lavoro.

Di fronte a questi scenari, alcune domande sorgono spontanee. Come mai l’iniziale quota del 68% del Recovery Plan è stata ridotta al 40% prevedendo uno “scippo al Sud” di oltre 60 miliardi di euro? Perché lo SVIMEZ non considera questa opportunità invece prevista dalla UE e dimenticata dal Governo Conte prima e Draghi poi? In che modo l’apertura di cantieri si concilia con le esigenze ecologiche? Come gli Enti Locali e le Comunità possono controllare la gestione di queste enormi quote di denaro? Sembra alto il rischio che la millantata “transizione ecologica” si trasformi nell’ennesima opera di cementificazione, che la digitalizzazione delle aziende si tramuti nella semplice creazione di corsi di aggiornamento informatico, che l’ecologia non sia seriamente presa come obbiettivo delle iniziative economiche da intraprendere. Continuare a pianificare investimenti che rispondono a logiche antiquate, come quelle descritte dai due scenari SVIMEZ, rappresenterebbe un vero spreco delle risorse in arrivo e non affronterebbe la conversione ecologica che bisognerebbe intraprendere tempestivamente (evitando che la nuova denominazione di alcuni ministeri divenga un’operazione di facciata). L’utilizzo delle risorse in arrivo con il Recovery Plan, al contrario, dovrebbe essere destinato al benessere dei territori a partire proprio da criteri innovativi che vedano nell’ecologia una guida e non un limite. La logica dovrebbe essere territoriale e partecipativa e non dovrebbe ridursi ad una grande pioggia di investimenti destinati al Sud. Devono cambiare i soggetti coinvolti nella progettazione: gli Enti Locali e le comunità locali devono poter co-progettare il futuro della loro Città, i bisogni essenziali devono essere garantiti, la battaglia sulla definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) deve arrivare ad un punto definitivo di svolta. I progetti da finanziare devono avere la capacità di impattare positivamente sull’occupazione territoriale e sulla qualità dell’ambiente locale, privilegiando l’alta densità di lavoro e la bassa intensità di capitale; mettendo in sicurezza il territorio e accelerando sulle bonifiche e sul ripristino ambientale; equilibrando il rapporto tra centri, periferie e aree interne; incentivando le piccole filiere di produzione agro-ecologica e le reti di consumo di prossimità; disponendo una gestione del ciclo dei rifiuti urbani che favorisca una virtuosa raccolta differenziata, il riuso e il riutilizzo dei materiali per diminuire drasticamente il conferimento in discarica; rifiutando l’istallazione di inceneritori, termovalorizzatori, biogas e rigassificatori. È fondamentale che lo Stato disponga di un grande audit energetico gestito territorialmente, da cui emergano le criticità dei sistemi locali di consumo, produzione e scambio di energia, e che restituisca i dati necessari alla costruzione di un nuovo modello energetico partecipato, democratico, centrato su fonti rinnovabili, sulla generazione distribuita su piccola scala, sulle comunità energetiche e sull’abbandono delle fonti fossili. È indispensabile che le città implementino modelli di trasporto pubblico alimentato da fonti energetiche rinnovabili; che si creino grandi e piccoli polmoni verdi in ogni quartiere e ampie “zone franche da emissioni climalteranti” (o “zone a emissioni zero”) in ogni città; che si istituisca un sistema di valutazione di impatto climatico in tutti gli ambiti di politica pubblica, dall’energia ai trasporti, dalla pianificazione urbana all’agricoltura, ecc.; che siano calcolate l’impronta carbonica e idrica nella disposizione dei progetti; che lo sviluppo diventi, insomma, prosperità e benessere per tutte e tutti gli abitanti dei nostri Comuni.

È chiaro che in questo scenario il ricorso a leggi speciali o al default finanziario non potrà risolvere un problema strutturale. Servirebbe una revisione completa della materia del pre-dissesto in seno al TUEL (Testo Unico degli Enti Locali) per riprendere la spesa locale e rinnovare profondamente la macchina amministrativa. È necessaria una revisione completa del meccanismo di riscossione che che ponga fine alle diatribe infinite tra Ente Locale e Agenzia delle Entrate. Bisogna pensare a nuove forme di redditività civica del patrimonio pubblico.

Lo scenario va cambiato in termini sistemici, applicando un’etica diversa da quella corrente. Ai Comuni deve essere data la possibilità di accedere a risorse più ampie e non solo provenienti dalla tassazione locale. Occorre promuovere un welfare territoriale che garantisca diritti e cura: la sanità, le politiche sociali, i servizi ai migranti, agli abitanti socialmente ed economicamente svantaggiati, l’assistenza agli anziani ed ai disabili, a chi vive il disagio mentale o forme di dipendenza sono tutti temi – spesso intrecciati tra loro – che potrebbero vedere i Comuni tra gli attori principali nella lotta alle disuguaglianze.

Il maggiore protagonismo dei Comuni può funzionare a due condizioni: la prima è che essi vengano messi in condizione di agire, sia economicamente che attraverso il riconoscimento di maggiori competenze; l’altra è una maggiore consapevolezza da parte dei Comuni stessi, che dovrebbero mobilitarsi e fare rete per condividere una visione alternativa a quella corrente. Non vediamo altre basi possibili per tale visione se non la solidarietà, l’ecologia, la partecipazione, la redistribuzione, l’opposizione ferma e concreta alla logica del profitto e dell’aziendalizzazione dei servizi.

I Comuni del Meridione chiedono a gran voce che la iniziale quota di ripartizione del Recovery Plan prevista dagli algoritmi europei sia interamente destinata al Sud: vogliamo il 68% delle risorse e non ci accontentiamo del 40%. A nostro avviso i 75 miliardi annunciati in pompa magna dalla Ministra Carfagna non sono una vittoria, ma l’ennesima ruberia e l’ennesima umiliazione per i Comuni del Sud che vedono in questa fase di espansione l’ultima vera possibilità di riscatto e dignità. Vogliamo e chiediamo di poter gestire i 140 miliardi inizialmente previsti, non un euro di meno.

*L’indice di vulnerabilità sociale e materiale è un indicatore costruito con l’obiettivo di fornire una misura sintetica del livello di vulnerabilità sociale e materiale dei comuni italiani. Si tratta di uno strumento capace di esprimere con un unico valore i diversi aspetti di un fenomeno di natura multidimensionale, e che, per la sua facile lettura, agevola i confronti territoriali e temporali. L’indice è costruito attraverso la combinazione di sette indicatori elementari che descrivono le principali dimensioni “materiali” e “sociali” della vulnerabilità. I valori ottenuti, associati alla posizione nella graduatoria nazionale, forniscono dunque elementi utili per l’individuazione di potenziali aree di criticità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Protected with IP Blacklist CloudIP Blacklist Cloud
Back To Top